Saul Leiter: un timido fotografo ribelle tra Proibizione e Poesia

La Ribellione Silenziosa contro il Secondo Comandamento

La mostra “Saul Leiter. Una finestra punteggiata di gocce di pioggia”, ospitata al Belvedere della Reggia di Monza fino al 27 luglio 2025, rappresenta un evento culturale di straordinaria importanza nella storia della fotografia italiana. Prima grande esposizione dedicata a Leiter nel nostro paese, l’evento costituisce un punto d’incontro fondamentale tra la tradizione iconoclasta ebraica e la modernità visiva del XX secolo.

L’opera di Leiter si inserisce all’interno di un complesso dialogo con la tradizione ebraica, che storicamente ha mantenuto un rapporto problematico con la rappresentazione visiva. Come scrisse Emmanuel Levinas: “L’immagine non è una categoria ma una dimensione esistenziale; non è una conoscenza ma un’approssimazione. Essa è il ‘tra’ dell’essere e del non-essere”. Questo pensatore ebraico contemporaneo coglie esattamente la tensione presente nel lavoro di Leiter, un fotografo cresciuto nel rigore di una famiglia rabbinica ortodossa e destinato a diventare lui stesso rabbino, come i suoi due fratelli, che ha scelto di esprimere il divino o quello che c’è di divino nella piccola quotidianità umana, proprio attraverso il medium visivo, tradizionalmente considerato sospetto nella cultura ebraica.

Il Secondo Comandamento, “Non ti farai immagine alcuna”, rappresenta il punto di partenza di una ribellione silenziosa che Leiter ha portato avanti con straordinaria coerenza estetica. Come osservato da Susan Sontag, altra importante pensatrice di origine ebraica: “Collezionare fotografie è collezionare il mondo”. E Leiter, con i suoi 126 scatti in bianco e nero e 40 a colori esposti a Monza, ha collezionato frammenti di una New York intima, trasformandola in una sorta di testo visivo da interpretare, non dissimile dall’approccio ermeneutico proprio della tradizione talmudica.

La Miniatura come Spazio di Libertà

Particolarmente significativo appare l’uso che Leiter fa dei formati ridotti, quasi miniaturistici. Le sue foto sono stampate in piccolo ma contengono molte cose. Come scrive Walter Benjamin in “Piccola storia della fotografia”: “Nei dettagli si nasconde l’infinito”. I piccoli formati di Leiter richiamano la tradizione delle miniature medievali ebraiche, dove lo spazio limitato diventava paradossalmente il luogo di una libertà interpretativa sconfinata.

In questa dimensione ridotta, Leiter trova lo spazio, come rimarca anche la bravissima curatrice Anne Morin, per una singolare convergenza tra la tradizione haiku giapponese e la sensibilità proustiana. Come nell’haiku di Bashō:

Vecchio stagno
Una rana salta
Il suono dell’acqua

Così nelle fotografie di Leiter vediamo la capacità di catturare l’istante in cui l’ordinario si trasforma in straordinario. Il riflesso di una vetrina, una figura sfocata sotto la pioggia, il vapore che sale da un tombino: sono i momenti “madeleine” della quotidianità newyorkese, capaci di richiamare, come in Proust, universi interi di significato.

Marcel Proust, nei versi meno noti dei suoi “Les Plaisirs et les Jours”, scriveva:

Dans ces instants fugitifs où tout frémit,
L’âme entière se donne à la feuille qui tombe

In questi istanti fugaci dove tutto freme,
L’anima intera si dona alla foglia che cade

Questa attenzione per il dettaglio effimero, per il frammento quotidiano caricato di valenza poetica, rappresenta il punto di contatto tra l’estetica proustiana e quella di Leiter. Ma mentre lo scrittore francese costruiva cattedrali narrative, il fotografo americano praticava una sorta di ascesi visiva, riducendo al minimo necessario gli elementi della composizione.

L’Acquerello Fotografico: Tra Schiele e la Tradizione Calligrafica

I 42 dipinti presenti in mostra rivelano un aspetto meno conosciuto ma fondamentale dell’opera di Leiter. Gli acquerelli, che richiamano il tratto nervoso e sensuale di Egon Schiele, testimoniano della formazione pittorica dell’artista. Come osserva la curatrice Anne Morin: “Il gesto di Leiter è quello di un calligrafo quando fotografa: veloce, preciso, senza scuse”.

Natascia Mercurio (Natybtw)
Natascia Mercurio (Natybtw)

Questo parallelo con la calligrafia è particolarmente significativo. Nella tradizione ebraica, la scrittura ha sempre goduto di uno status privilegiato rispetto all’immagine, in quanto veicolo della parola divina. Gershom Scholem, grande studioso della mistica ebraica, notava come “nella calligrafia ebraica, ogni lettera contiene mondi interi”. Leiter sembra trasferire questa concezione sacrale della scrittura alla fotografia, trattando i suoi soggetti, figure umane, edifici, riflessi, come segni di un alfabeto visivo da decifrare. La decifrazione della parola divina è il compito del Rabbino e Leiter cerca di decifrare il lavoro divino, il mondo/l’universo, attraverso l’immagine fotografica.

La dimensione calligrafica si esprime anche nel suo approccio al colore. Il rabbino Abraham Joshua Heschel, in “L’uomo non è solo”, scriveva: “Il colore è la prima manifestazione della gloria divina”. Leiter, uno dei primi pionieri della fotografia a colori come forma d’arte, sembra aver colto questa dimensione spirituale della tavolozza cromatica, utilizzandola non in modo realistico ma espressivo, come un pittore espressionista.

Realismo Fiabesco: La Visione Intimista di New York

Ciò che distingue nettamente Leiter dai suoi contemporanei è il suo “realismo fiabesco”, una sorta di documentarismo poetico che si distacca dal fotoreportage tradizionale. Se contemporanei come Weegee o William Klein cercavano di catturare l’energia violenta e vitale della metropoli, Leiter praticava una fotografia intimista, quasi sussurrata; ma allo stesso tempo potente nel descrivere noi piccoli esseri umani.

Emmanuel Levinas, ancora, ci fornisce una chiave di lettura: “L’incontro con l’altro avviene nel faccia a faccia, nella prossimità”. Le fotografie di Leiter sembrano sempre catturate dalla distanza di un osservatore discreto, che non vuole disturbare l’intimità dei soggetti. Questa postura etica nei confronti del soggetto fotografato rappresenta forse il lascito più profondo della sua educazione ebraica, fondata sul rispetto dell’alterità.

Patrizia Pfenninger, l’artista svizzera che accompagna con le sue installazioni la mostra di Monza, ha colto perfettamente questa dimensione di rispetto, creando opere che dialogano con il “silenzio eloquente” di Leiter. In un’epoca dominata dal rumore mediatico e dall’ostentazione sociale, l’approccio riservato e meditativo di Leiter appare sorprendentemente contemporaneo.

Come nell’haiku di Taneda Santōka:

Pioggia di primavera
mi bagno completamente
camminando

Così Leiter si immerge completamente nella città, lasciandosi permeare dalla sua essenza, senza mai cercare di dominarla o catturarla in modo definitivo.

Chi Rende Possibile Questa Bellezza

La realizzazione di un evento culturale così denso e sfaccettato come la mostra “Saul Leiter. Una finestra punteggiata di gocce di pioggia” al Belvedere della Reggia di Monza è frutto di un impegno e una visione condivisa. Un doveroso ringraziamento va innanzitutto alla Reggia di Monza e al Comune di Monza, per aver accolto un’esposizione di tale respiro internazionale in una sede così prestigiosa e carica di storia. Questa scelta dimostra una chiara volontà di offrire al pubblico un programma culturale di alta qualità, rendendo accessibile in Italia il lavoro di maestri fondamentali per la storia dell’arte contemporanea.

Un merito speciale spetta a Vertigo Syndrome, che non si limita a organizzare mostre, ma manifesta un vero e proprio “manifesto” curatoriale: una filosofia che privilegia la profondità, la narrazione e, soprattutto, la creazione di un’esperienza significativa e gratificante per lo spettatore. La loro visione mira a fare in modo che ogni visitatore, anche il meno preparato nel campo della fotografia o dell’arte, possa non solo apprezzare l’esposizione, ma anche divertirsi e portare a casa qualcosa, un’emozione, un’idea, uno stimolo nuovo. Questo si vede non solo nella curatela attenta di Anne Morin, ma anche nell’attenzione verso pubblici diversi e nella volontà di rendere l’arte accessibile. Ne è un esempio l’iniziativa della caccia al tesoro per i bambini, un’idea bellissima e innovativa. Ai più giovani viene fornito un foglio A4 con l’illustrazione di dettagli significativi tratti dalle opere in mostra; il loro compito è quello di esplorare le sale per rintracciare le fotografie o i dipinti corrispondenti e segnarne la posizione sulla piantina posta sul retro del foglio. È un modo ingegnoso per trasformare la visita in un gioco interattivo, stimolando l’osservazione attenta e il dialogo con l’opera d’arte fin dalla più giovane età. Un piccolo premio a mostra terminata suggella l’esperienza.

Queste attenzioni dimostrano la volontà di Vertigo Syndrome di rendere l’arte coinvolgente, promuovendo una fruizione consapevole e non superficiale, perfettamente in linea con l’intimità e la ricchezza silenziosa dell’opera di Leiter.

Conclusione: La Fotografia come Tikkun Olam

Nella tradizione mistica ebraica, il concetto di “Tikkun Olam” (riparazione del mondo) riveste un’importanza centrale. L’idea che l’umanità sia chiamata a collaborare al completamento della creazione attraverso atti di giustizia e compassione trova un parallelo sorprendente nell’attività fotografica di Leiter.

La sua fotografia non è mai predatoria, ma sempre dialogica; non cerca di “rubare” l’immagine, ma di stabilire una relazione con il soggetto, anche quando questo è inanimato. Martin Buber, filosofo ebraico del dialogo, scriveva: “Ogni vita vera è incontro”. Le fotografie di Leiter sembrano nascere proprio da questi incontri fugaci ma autentici con frammenti del reale, elevati attraverso lo sguardo artistico a momenti di rivelazione. Nelle sue foto incontriamo noi stessi.

In questo senso, la curatela di Anne Morin ha saputo cogliere la dimensione profonda del lavoro di Leiter, presentandolo non come semplice documentazione storica di una New York scomparsa, ma come un corpus di opera viva e pulsante, capace di parlare al presente. La scelta di includere materiali d’archivio originali, le riviste d’epoca e il documento filmico, contestualizza efficacemente il lavoro dell’artista senza ridurlo a mero documento storico.

Come scrive Proust in “À l’ombre des jeunes filles en fleurs”:

Car les lieux que nous avons connus n’appartiennent pas qu’au monde de l’espace où nous les situons pour plus de facilité. Ils n’étaient qu’une mince tranche au milieu d’impressions contiguës qui formaient notre vie d’alors.

I luoghi che abbiamo conosciuto non appartengono soltanto al mondo dello spazio in cui li collochiamo per comodità. Non erano che una sottile porzione in mezzo a impressioni contigue che formavano la nostra vita di allora.

Allo stesso modo, le fotografie di Leiter non sono semplici documenti di un tempo e di un luogo, ma “impressioni contigue” che formano una cosmologia personale e universale al tempo stesso frammenti di un mondo visto attraverso una “finestra punteggiata di gocce di pioggia”, che è poi la metafora perfetta del suo sguardo artistico: filtrato, frammentato, ma incredibilmente lucido nella sua capacità di cogliere la poesia dell’ordinario.

Saul Leiter aveva un rapporto conflittuale con il padre che non lo capiva. Ma un rabbino ortodosso non poteva capire, probabilmente, che il figlio con il pennello e con la macchina fotografica pregava Adonai (אֲדֹנָי)(Dio) ogni giorno, in ogni momento. 

La mostra al Belvedere della Reggia di Monza rappresenta dunque un’occasione imperdibile per scoprire l’opera di questo maestro discreto, che ha saputo trasformare la sua ribellione contro la tradizione iconoclasta in una delle più raffinate poetiche visive del XX secolo.